NOF 4 – Il muro graffiato…..

 

Fernando Oreste Nannetti (NOF 4) entra nel manicomio di Volterra nel 1958.

Sulla sua misera scheda medica veniva annotato “Figlio di ragazza madre e di padre sconosciuto, nato a Roma nel 1927, schizofrenico, soffre di allucinazioni e di deliri di persecuzione. Matricola n. 4”.

La sua storia di entrate ed uscite dagli istituti inizia all’età di 7 anni quando viene affidato ad un ente di carità, successivamente è ricoverato presso un ospedale romano per una malformazione scheletrica. Riesce ad ottenere la licenza elementare.

A 21 anni a seguito di un’ accusa di oltraggio a Pubblico Ufficiale viene internato presso il manicomio romano di Santa Maria della Pietà dove restò fino al trasferimento al padiglione Ferri del manicomio di Volterra.

Durante il periodo di internamento a Roma Fernando è loquace, parla di continuo giorno e notte.

A Volterra invece diventa taciturno, si isola, non cerca il contatto umano, quasi percepisca che il suono della sua voce ormai non possa più aiutarlo.

E sarà proprio il muro di pietra del cortile del padiglione Ferri a diventare la sua voce, il suo grido, il suo libro di pietra firmato NOF 4.

Nei suoi lunghi anni di detenzione ha lasciato 180 metri per 2 di pensieri incisi, graffiati, carichi di dolore e solitudine, di follia e poesia.

Un faticoso, instancabile sforzo per esprimere il proprio diritto ad esistere: sono parole, segni, disegni graffiati utilizzando la fibbia del suo panciotto che allora faceva parte della “divisa del matto”.

In alto si riesce a leggere “L’elemento umano si allunga e si accorcia”

Ogni “pagina” di questo libro graffiato segna per NOF il lento tempo del manicomio. Su questi muri trasferisce la sua “muta” osservazione di quello che accadeva all’interno dell’ospedale:

“10% di morti per radiazioni magnetiche teletrasmesse, 40% per malattie trasmesse o provocate, 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi”

 

La chiave di lettura…..

Questo diario di pietra sarebbe rimasto solo uno sfogo delirante se un infermiere del reparto, Aldo Trafeli, appassionato d’arte, non ne avesse capito il valore artistico.

Riuscì ed entrare in contatto con NOF, stabilì con lui un contatto umano (in tutti gli anni di internamento Fernando non ricevette mai visite da parenti o amici), cercò di arrivare ad una chiave di lettura della sua opera.

Decifrazione difficile: parole messe in flusso continuo senza punteggiatura, scrittura bustrofedica che consiste nel cambiare direzione di ogni riga, invertendo anche quelle delle singole parole.

Fra le tante frasi che Trafeli decifra e trascrive leggiamo:

“…io sono un astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale…” “..il vetro le lamiere i metalli il legno le ossa dell’essere umano e animale e l’occhio e lo spirito si controllano attraverso il riflessivo fascio magnetico catotico…” “…ghiandole di sesso maschile e femminile. Sono materie viventi le immagini che hanno una temperatura e muoiono anche due volte…” “amo il mio essere materiale come me stesso…” “…come una farfalla libera canta tutto il mondo è mio e tutto fo’ sognare…”

Questo graffiava NOF 4 nel suo libro di pietra pieno di nazioni immaginarie, voli spaziali, personaggi fantastici descritti come

“alti, spinacei, naso a Y”

frutto della mente “geniale” del

“Colonello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre”

Tre spazi lasciati bianchi, non sono una dimenticanza di Nannetti, ma un segnale di rispetto rivolto ai 3 malati catatonici che sedevano sulle panchine lungo il muro e che non si muovevano se non spostati da qualcuno. NOF 4 per non disturbarli “graffiava” intorno alle loro teste.

C’è anche l’orrore per la guerra:

“il passo chiodato avanza su tutta Europa senza contrasti territoriali”

ci sono fucilazioni immaginarie, morti misteriose, dolore per la morte: tutto quello che fa parte dell’universo umano.

Il recupero dell’opera

Purtroppo parte del muro originario del padiglione Ferri andò persa. Ma l’impegno di Aldo Trafeli per il recupero dell’opera non si fermò.

Nel 1980 il fotografo Pier Nello Manoni realizzò la documentazione fotografica completa dei muri rimasti, nel 1985 l’Usl di Volterra chiese l’intervento dello scultore Mino Trafeli e venne pubblicato il volume “NOF 4 – Il libro della vita”.

Il ricavato della vendita di questo saggio viene offerto a Nannetti che però rifiuta (pare abbia mandato letteralmente a “stendere” il medico che glieli portò): la sua arte è libera, è il suo riscatto, il suo sacrario al quale ogni uomo può avvicinarsi.

Nel 1972 Nannetti viene dimesso dal manicomio per essere ospitato dall’Istituto Bianchi di Volterra dove morirà il 24 novembre 1994.

Ho avuto l’occasione nel 2018 di vedere una mostra a lui dedicata a Siena.

E’ ancora forte l’impressione ricevuta: mi pareva quasi di vedere quest’uomo graffiare con forza quel muro che lo escludeva dal mondo per trasformarlo nel suo spazio di libertà e di comunicazione.

Percepisci quasi lo sforzo fatto per ribadire la propria esistenza, la propria dignità in un luogo dove veniva negata, cancellata, umiliata.

Oggi questo lavoro di Nannetti viene considerato un capolavoro dell’Art Brut e un calco dell’opera è esposta all’interno della Collezione del museo di Art Brut di Losanna.

“La vera arte è sempre là ove non la si attende, là ove nessuno pensa a lei né pronuncia il suo nome”

Jean Dubuffet

 

https://www.youtube.com/watch?v=_HPyqNc4AbY

Storia “della follia” 

La storia di Fernando Oreste Nannetti si inserisce in quella specie di fiume carsico, fatto di credenze e valori, che hanno visto nel “folle” e nel comportamento “deviato” un soggetto contro il quale la prima reazione è stata sempre  quella della sua esclusione dalla società e dalle sue forme di vita comunitaria (pubbliche, religiose etc.)

Vogliamo fare qui una brevissima sintesi storica della follia e dell’istituzione manicomio, per inquadrare il contesto “ideologico” che fece da sfondo alla sua vicenda umana.

Etimologia dei termini

“Nonostante l’uso comune che tende a confonderli, follia, pazzia e malattia mentale non sono dei sinonimi. Follia viene dal latino ‘follis’ che significa mantice, otre, recipiente vuoto e rimanda all’idea di una testa piena d’aria. La parola ‘pazzia’ ha un’origine incerta, ma probabilmente deriva dal greco ‘pathos’, che significa sofferenza e dal latino ‘patiens’ (paziente, malato), concentrando dunque il significato sull’esperienza dolorosa anziché sulle bizzarrie e le stravaganze del folle.” fonte: psicolinea. Per malattia mentale si intende una disfunzione comportamentale o psicologica clinicamente rilevante. 

Periodo classico

Una prima definizione della “follia” come “malattia” l’abbiamo con Ippocrate (460-370 a.c.) che mise in relazione l’epilessia  con il cervello e ne trasse la conclusione che era un disturbo che riguardava quell’organo:

” «Gli uomini dovrebbero sapere che nient’altro che da là [dal cervello] vengono gioie, delizie e divertimento; e per questo specialmente acquistiamo la vista e le conoscenze e vediamo ed udiamo. E a causa dello stesso organo diveniamo folli e deliranti e ci assalgono le paure e il terrore talvolta di notte e talvolta di giorno…Tutte queste cose le sopportiamo dal cervello quando non è sano.”

 Questo tipo di approccio (da medico e non da sciamano) e le intuizioni che ebbe  lo portarono ad escludere che problematiche di quella natura potessero essere risolte con cerimonie sacerdotali. Ippocrate   scorgeva due elementi caratterizzati l’epilessia :” la sua struttura naturale e cause razionali”.

Immerso in ogni caso nella  società in cui viveva e nelle credenze popolari del periodo rilevava come:

“gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza e stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre. E tale carattere divino viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo, mentre poi risulta negato per la facilità del metodo terapeutico col quale curano, poiché è con purificazioni e incantesimi che essi curano”

In un’opera di otto volumi intitolata De Medicina Cornelio Celso (24 a.c. 45 d.c.) fu il primo che approfondì il capitolo delle malattie mentali in modo sistematico focalizzando, tra le altre cose, la sua attenzione sul rapporto medico-paziente e sul comportamento da tenere nei confronti del “malato”:

”  intuì l’importanza del rapporto (tra i due soggetti) e l’utilizzo di strumenti terapeutici come il gioco, il dialogo, la lettura e la musica, scrisse della necessità di abbandonare l’uso di costrizioni come le catene, le percosse e le punizioni, da usare solo per i più violenti; in qualsiasi caso, egli constatò come la solitudine non facesse che aggravare le condizioni mentali del pazienti” fonte wikipedia- De Medicina-

Pur in presenza di un pensiero orientato ad una analisi di tipo razionale, con i primi tentativi di una sistematizzazione delle terapie da usare nella cura,  la sfera della follia nell’epoca classica fu prevalentemente associata alla sfera sacra.

Il “folle” divenne così una sorta di rappresentazione terrena del divino. Rappresentazione che cambiò completamente in epoca medievale.

Medioevo

La concezione della follia come  forma di possessione da parte di spiriti maligni fu parte della cultura e delle credenze che si svilupparono nel medioevo.

La Chiesa sostituì i medici nella gestione della malattia mentale  non riconoscendola come tale. Il folle diventa il rappresentante del demonio, colui che deve essere liberato dal male e in qualche modo esorcizzato.

Esorcisti ed inquisitori divennero giudici e boia per tutti quelli che avevano comportamenti che venivano ritenuti non conformi dall’autorità, le donne furono tra le vittime maggiormente colpite da questa visione.

Le pene

Le persone che venivano giudicate folli venivano bandite dalla comunità, gli si impediva l’ingresso nelle chiese e, se donne, venivano condannate come streghe e bruciate sul rogo ( l’ultimo rogo per stregoneria è stato effettuato in Polonia, nel 1793).

Con  il rogo ( o con l’impalamento) veniva ribadita la necessità di liberare l’anima del “folle” dal suo corpo indemoniato. La sua distruzione come entità fisica era la pena necessaria per  l’ascesa fino “al regno dei cieli”.

Bisognerà aspettare il XVII secolo per sganciare i malati psichici dai gangli della religione e trattarli come tali. La psichiatria fu riconosciuta come scienza medica ed iniziò i suoi passi nella trattazione del disagio psichico, in ogni caso questo cambiamento non portò alcun progresso nella cura dello “stato della persona” che veniva comunque percepita come inguaribile, con una malattia progressiva e dagli elementi incomprensibili.

Altri soggetti devianti furono equiparati al “malato mentale”. La condizione di povero, disoccupato, mendicante oltre che di eretico, libertino, donna di facili costumi  portò ad una condivisione per gli uni e peri gli altri degli stessi luoghi di detenzione. Quello che si radicò fu una classificazione del mondo di chi viveva ai margini della società (reietti) in funzione di  una condizione  di status (classe di appartenenza), credenze, atteggiamenti o stato psichico. 

Soggetti da trattare avendo come obiettivo la difesa della società rispetto ai loro comportamenti devianti (uso di luoghi di detenzione e pene).

Un salto fin quasi ai giorni nostri.

Il manicomio come istituzione segregante ha una lunga storia. Nel XIX secolo iniziò a formarsi l’opinione che bisognava distinguere tra “malato mentale”, da relegare in una struttura dedicata alla cura delle malattie, e individui in cui i sintomi della follia si associano a comportamenti criminali  da rinchiudere in strutture a loro dedicate (manicomi giudiziari) diverse dal carcere.

Fino a metà dell’ottocento “i folli delinquenti venivano trattenuti nelle prigioni o nei comuni asili per alienati; ma i molti e gravi inconvenienti, che ne derivarono, indussero a creare asili specializzati, il primo dei quali fu aperto, nel 1863, a Broadmoor presso Londra. Sulla via tracciata dagl’Inglesi, l’istituto del manicomio giudiziario si estese in parecchi paesi  (Treccani)”

 

Popolazione nei manicomi: i numeri

Nel 1875, in Italia,  la popolazione ospitata negli asili di cura era di 12.913 persone, nel 1905 (ad 1 anno dalla legge) 39.500, nel 1926 (fascismo al potere) 62.127, nel 1941 si arriva a 94.946 persone.

Il manicomio come luogo di difesa sociale, cura e custodia,  ebbe un suo riconoscimento in Italia grazie ad una legge emanata nel 1904.

La legge  prevedeva la possibilità di ordinare il ricovero di qualsiasi persona sulla base di due requisiti:

1- certificazione medica

2- urgenza

I reparti si riempirono di tutti quei soggetti che potevano dare scandalo diventando una sorta di appendice dell’istituzione carceraria. Vi furono ospitati non solo i “pazzi” ma anche: paralitici, alcolisti, degenerati e quanti potevano essere un problema per la famiglia e la società.

 Alfredo Rocco (giurista e politico italiano), nel 1930, ne colse gli aspetti fondamentali e introdusse il concetto di “manicomio giudiziario” nella stesura di quello che divenne il codice penale che porta il suo nome.

Il manicomio giudiziario divenne la struttura che aveva la duplice funzione di custodire e curare quei soggetti accusati di reati e giudicati incapaci di intendere e volere.

Nella relazione che accompagnava il codice penale  Rocco mise in enfasi che “le misure di sicurezza  dovevano adempiere a  fini socialmente eliminativi, o curativi e terapeutici, o educativi e correttivi e talora semplicemente cautelari”

Nel 1930, con la ratifica del codice penale,   il fascismo colse l’occasione per dare ordine alla legge del 1904 non abrogandola,  ne assunse la cornice introducendo elementi che la resero più efficace e utile per i suoi scopi di controllo e repressione. Buona per essere utilizzata nella lotta contro coloro che non si allineavano al regime. 

Il concetto che  prevalse nel suo utilizzo fu quello della pericolosità sociale. Era sufficiente un semplice certificato, firmato da un podestà e non necessariamente da un medico, che attestava un potenziale  pericolo per operare una sorta di pulizia di tutti quegli elementi  ritenuti scomodi.

La vicenda di NOF 4

Come abbiamo scritto Oreste Nannetti entra all’interno di una di quelle strutture all’età di 21 anni nel 1948. Vi rimane per 10 anni prima di essere trasferito nel manicomio di Volterra dove arriverà nel 1958 soggiornandovi per altri 14 anni. La sua vicenda nasce con una “offesa a pubblico ufficiale”, un certificato medico che ne attesta la schizofrenia e prosegue in luoghi in cui i metodi di cura prevedevano l’uso dell’isolamento, dell’elettroshock, dei letti di contenzione e delle camice di forza.

Trova in una fibbia e in un muro il suo modo di evadere e di lasciare come testimonianza la sua vicenda umana.

La sua storia è anche il prodotto di una stratificazione di modi di vedere il diverso, “l’alienato”, colui che non si integra e vive ai margini  come di un soggetto a cui l’unica sorte concessa è quella della segregazione. Qualsiasi forma questa assuma.

Nello stesso tempo Oreste Nannetti ci ricorda altri che hanno avuto modo di lasciare dietro di sé una testimonianza tangibile della loro grandezza rispetto allo stigma di “alienato mentale” che la società gli attribuì. Ne citiamo due: Van Gogh e Ligabue.

Articolo scritto da Carla e Mario