Quando le immagini raccontano la storia

Rise and fall of Apartheid

La fotografia nel suo evolversi è diventata una sorta di linguaggio “universale” della storia moderna: ognuno di noi la osserva, la capisce, la interiorizza.

Questa forte capacità del “linguaggio” fotografico di veicolare il suo messaggio è stata pienamente dimostrata dall’esposizione che l’International Center of Photography di New York (I.C.P.) organizzò nel 2012 dal titolo:

Quella mostra non fu solo la manifestazione di un percorso di lotta e di protesta emozionante, come avrebbe potuto facilmente essere.

Fu qualcosa sicuramente di drammatico, ma in modo sfumato e penetrante, che rimase nella mente e nel cuore di chi la vide.

la mostra

Con più di 500 foto esposte, la mostra analizzò 60 anni di produzione illustrata e fotografica ormai parte della memoria storica e della moderna identità sudafricana, arrivando all’epoca dell’elezione di Nelson Mandela.

Il progetto raccolse il lavoro di quasi 70 fotografi, artisti e registi, dimostrando il potere dell’immagine – dal saggio fotografico al reportage, dall’analisi sociale al fotogiornalismo e all’arte – di registrare e analizzare l’eredità dell’apartheid e i suoi effetti sulla vita quotidiana in Sud Africa.

Da un lato fu una grande narrazione di scatti fotografici drammatici: volti appassionati, corpi agitati, pugni chiusi, funerali.

Dall’altra parte fu la rappresentazione del bene e del male quotidiano e di come la gente li affrontasse e continuasse con la vita di tutti i giorni.

La mostra, organizzata da Okwui Enwezor curatore dell’ICP, e da Rory Bester, storica d’arte sudafricana, si basò sul concetto che la moderna fotografia del Sud Africa iniziò nel 1948, l’anno in cui il governo nazionale bianco legalizzò l’apartheid.

LA FOTOGRAFIA SUDAFRICANA

Fino ad allora la fotografia sudafricana aveva generalmente uno scopo commerciale e pubblicitario, dopo quell’anno divenne un’arma politica nella lotta per i diritti civili che durò per oltre 40 anni.

Tuttavia anche prima del 1948 la fotografia “bianca” aveva una sua dimensione politica.

Le prime riproduzioni illustrate esposte nella mostra ricordavano le gesta dei bianchi Afrikaners che nel 17° secolo intrapresero il viaggio dall’Europa verso il Sud Africa, considerato la loro terra promessa per volere divino.

La fotografia fu anche supporto e contributo per dare validità scientifica alle teorie esposte nei vari volumi “Bantu Tribes of South Africa” (1920) di Duggan-Cronin, nei quali realtà e fantasia si combinavano.

Considerate fotografie paesaggistiche, in realtà proponevano il popolo nero sudafricano come figure inesorabilmente confinate in uno scenario etnografico primitivo.

The black sash

E questa mostra dimostrò come “la scenografia” divenne un importante elemento sia nella politica che nella fotografia appartenenti agli anni dell’apartheid.

Come ad esempio nelle immagini dedicate al “Women’s Defense of the Constitution League” meglio conosciute come “Black Sash che si costituirono a metà degli anni ’50.

Un gruppo di donne bianche che si opponevano all’apartheid, manifestando in una sorta di studiata e simbolica “coreografia”: tutte in piedi, in una silenziosa protesta, vestite in modo impeccabile e con una fascia nera identica per tutte poggiata su di una spalla (da qui il nome di Black sash).

Così è come apparivano, cartelli di protesta in mano, sulle scale del Municipio di Johannesburg in una foto del 1956.

Sicuramente un’immagine fortemente coreografica e rivolta alla gente in strada.

Al tempo delle Black Sash, l’attività organizzata anti-apartheid si basava sui principi Gandhiani della non-violenza.

Ma questo non poteva durare.

La lotta

Nel 1960 in una manifestazione contro la legge che obbligava i neri a esibire uno speciale permesso se fossero stati fermati dalla polizia in un’area riservata ai bianchi, la polizia uccise 70 persone disarmate nella città di Sharpeville, 39 miglia a sud di Johannesburg.

E ogni cosa cambiò.

Nelson Mandela, già attivista da anni, decise di radicalizzare il conflitto, passando ad una lotta più impegnata.

La violenza esplose. Nella drammaticità di quella situazione il pugno chiuso alzato divenne il nuovo simbolo della solidarietà e della sfida del popolo nero sudafricano.

E la fotografia divenne il mezzo principale per ampliare la portata di quel gesto.

Nel 1976 a Soweto la polizia aprì il fuoco su alcuni studenti delle scuole superiori che protestavano per l’uso imposto dell’Afrikaans come lingua scolastica.

E i fotografi erano lì.

FOTOGRAFI MILITANTI

Uno di loro, Sam Nzima , scattò la foto della prima persona uccisa, il tredicenne Hector Pieterson, sorretto dalle braccia di un suo compagno.

La foto apparve sulla stampa il giorno dopo e velocemente raggiunse tutte le zone del Sudafrica ed andò oltre facendo crescere il sentimento anti-apartheid in tutto il mondo.

16 giugno 1976, Soweto: Antoinette Pieterson e il compagno Mbuyisa Makhubo, che sta sorreggendo
il corpo senza vita di Hector Pieterson

Anche il fotografo, Peter Magubane, era presente alla protesta, come lo era stato in molte altre occasioni dagli anni ’50.

Le sue fotografie dei funerali di massa seguiti al massacro di Sharpeville ebbero anche loro un forte impatto a quel tempo e il suo genere di fotografia diede inizio a quella che venne chiamata “fotografia di lotta”

Maggio 1960 – Sharpeville Funeral – Più di 5000 persone erano presenti al cimitero. Arrivarono da molte parti del Sud Africa per portare l’ultimo saluto a 34 delle persone uccise a Sharpeville . Le bare erano poste in una lunga scura fila, tutte uguali tranne una bianca contenente il corpo di un bambino. Nel silenzio la voce del reverendo Z.M. Voyi della chiesa Anglicana intonò il canto “Dio ha dato e Dio ha tolto” (Fotografia di Peter Magubane BAHA)

Se esiste un fotografo simbolo, ecco Magubane lo fu. Dove c’erano scontri e proteste lui era lì, la macchina fotografica sulla linea di fuoco pronta a raccontare la storia.

E il governo sudafricano si vendicò: nel 1969 Magubane fu arrestato, messo in isolamento per 98 giorni e in carcere per 6 mesi.

Quando fu rilasciato gli proibirono di usare la macchina fotografica per 5 anni.

Seguirono arresti e proteste.

Tuttavia non tutte le sue immagini riguardavano la lotta.

Foto di coppie di giovani neri danzanti in un night club di Johannesburg, piuttosto che quella di una nervosa nera Miss Sudafrica ripresa prima di vincere il titolo rappresentano il lato nascosto della fotografia di lotta.

Era la dimostrazione che anche in dure e complesse condizioni politiche stava nascendo la moderna, cosmopolita vita urbana dei neri sudafricani.

AFRAPIX

Nella mostra trovarono spazio anche numerosi documentari su temi sociali, una produzione che iniziò in Sudafrica verso gli anni ’80 con la nascita dell’agenzia Afrapix che raggruppava un collettivo multirazziale.

I fotografi di Afrapix, tra i quali Lesley Lawson, Santu Mofokeng, Chris Ledochowski, si consideravano attivisti politici ed avevano una loro agenda politica.

Uno dei co-fondatori Paul Weinberg scrisse:

“La fotografia non può essere separata dalla politica e dagli aspetti sociali che ci toccano ogni giorno. Noi fotografi non abbiamo tra le mani uno strumento neutrale, ma giochiamo un ruolo fondamentale decidendo da che parte stare”

Fotografia di Santu Mofokeng

Afrapix si sviluppò nei sanguinosi anni che portarono al rilascio di Mandela dal carcere nel 1990. Due anni dopo si sciolse, da una parte a causa di dissapori interni, ma anche perché i finanziamenti per le iniziative anti-apartheid cominciarono a diminuire.

Foto di Santu Mofokeng

Tecnicamente la lotta era conclusa, terminata.

Con la possibile elezione di Mandela a presidente, l’ottimismo e non il criticismo fu il sentimento di quei giorni.

MA LA STORIA CONTINUA

Significativamente il giorno dell’elezione di Mandela trovò uno spazio minimo nell’esposizione, che ricordiamo fu inaugurata a settembre del 2012.

La storia nel frattempo ci ha disilluso, raccontandoci di un paese che ancora soffre i lunghi effetti di un razzismo istituzionale.

Il mese prima di quella esposizione, nell’agosto del 2012 più di 30 minatori furono uccisi dalla polizia durante uno sciopero in una cava di platino, circa 100 chilometri da Johannesburg.

La mostra chiude con le foto dei due più giovani fotografi presenti : Sabelo Mlangeni e Thabiso Sekgala, nati entrambi negli anni ’80.

Sabelo racconterà con i suoi scatti momenti intimi e nascosti della comunità: sia quando documenta la vita delle comunità gay del Sudafrica rurale, sia quanto fotografa i lavoratori migranti lui dimostra lo stesso livello di coinvolgimento personale.

Country Girl – fotografia di Sabelo Mlangeni

Thabiso Sekgala volgerà i suoi scatti sui paesaggi della sua terra, sull’identità e la nozione di “casa”

Dopo tutto queste sono immagini della vita di tutti i giorni

“Rise and Fall of Apartheid: fotografia della vita di tutti i giorni”